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domenica 11 marzo 2012

La storia della crisi parte 8: primo semestre 2008


Nel mese di aprile il Lingotto pubblicava il bilancio del primo trimestre dell’anno; i risultati erano molto positivi, l’utile netto del gruppo era di quattrocentoventisette milioni di euro, mentre il fatturato era il più alto della sua storia . Nello stesso mese il brand Fiat era presente al salone di Pechino con i modelli di gamma più strategica, visto che il mercato cinese era considerato molto importante dai vertici torinesi . Parallelamente veniva portata avanti la trattativa con il governo di Belgrado per acquisire il marchio Zastava e poter così controllare e ristrutturare la sua fabbrica di Kragujevac, in modo da farne un sito produttivo per i modelli destinati all’esportazione nell’Europa dell’est . Intanto ad aprile il mercato italiano continuava nella sua discesa, le immatricolazioni erano 201.844, pari a un calo del 2,9% rispetto ad aprile 2007. Il Gruppo Fiat, in controtendenza, cresceva dell’1,5% . 
Il mese successivo il saldo delle immatricolazioni era nuovamente in passivo, 204.607 erano le unità vendute, con un calo del 17,6% confrontato al maggio 2007. Le consegne del Gruppo del Lingotto, invece, erano scese del 12,6% . Inoltre, secondo l’Unrae , il tetto delle duecento mila immatricolazioni era stato sfondato grazie a una notevole impennata di queste ultime, nei giorni finali del mese, solo per un massiccio ricorso alle auto a km0; una pratica sintomo di un mercato non certo in salute. Difatti la stessa Unrae, insieme all’Anfia , chiedeva a gran voce l’estensione degli incentivi ai quattro milioni di auto Euro2 immatricolate nel ’97 e nel’98 . Un altro segnale delle difficoltà del mercato veniva dall’aumento delle vendite alle società di noleggio, ormai il 15% del totale, il che stava a significare che le Case compensavano il calo delle vendite ai privati con l’aumento di quelle agli specialisti del settore, con la differenza che queste ultime erano molto meno remunerative . 
Il mese di giugno si apriva positivamente per Fiat: si siglavano infatti due nuove joint-venture con la russa Sollers, per produrre localmente il modello Linea e sviluppare un propulsore a gasolio; il Lingotto cercava così di recuperare il tempo perduto negli ultimi anni . Per la stessa ragione, pochi giorni dopo, si inaugurava la rinnovata fabbrica di Cordoba (Argentina) che, aperta a fine anni ’90, era stata chiusa poco tempo dopo a causa della profonda crisi che aveva scosso quel Paese. Lo stabilimento sarebbe stato un polo produttivo strategico, impiegando oltre quattromila lavoratori e producendo fino a seicentomila veicoli l’anno . 
Le cattive notizie iniziarono ad arrivare verso la fine del mese: la prima era lo sciopero degli autotrasportatori che creava non pochi problemi, tanto che si pensava a una chiusura temporanea delle linee produttive . La seconda, più grave, riguardava l’andamento del mercato. A giugno la flessione, rispetto al medesimo mese del 2007, era stata del 19,5%, pari a 184.275 immatricolazioni. Il primo semestre dell’anno si chiudeva complessivamente con una perdita dell’ 11,5% sullo stesso periodo del 2007, con 1.259.365 unità targate. In controtendenza la vendita delle auto aziendali continuava invece a crescere, con un incremento del 5,4% . Il Gruppo Fiat perdeva, nel semestre, il 10,25%, ma incrementava la sua quota di mercato al 32,1%, dal 31,6% del primo semestre 2007 . Il Lingotto reagiva al calo delle vendite introducendo la cassa integrazione in diversi stabilimenti  e inoltre ritoccava i listini, con rincari generalizzati dell’1,5%, per far fronte all’aumento dei costi delle materie prime . 
Anche il mercato europeo era in flessione: il primo semestre faceva segnare una perdita del 2,2% rispetto all’analogo periodo del 2007 . Mentre il mercato francese (+4,5%) e quello tedesco (+3,6%) si dimostravano in salute, quello britannico (-1,6%) e soprattutto quello spagnolo (-17,6%), non lo erano affatto . I tre Gruppi leader del mercato continentale erano tutti in perdita, VW del 2%, PSA del 4,3% e Ford del 2,9% . La VW Golf restava l’auto più venduta in Europa con oltre duecentocinquantamila unità vendute . 
Nei primi giorni di luglio veniva siglato un importante accordo tra il Gruppo Fiat e il Gruppo BMW, volto a sviluppare congiuntamente componenti meccanici riguardanti i marchi Alfa Romeo e Mini . Continuava , quindi, la politica ad ampio respiro del Lingotto, volta a rafforzare l’azienda anche fuori dei confini nazionali. Nello stesso periodo la Casa torinese veniva premiata in Brasile come “Impresa dell’anno 2008” ; proprio gli eccellenti risultati in Brasile compensavano le difficoltà sugli altri mercati. Inoltre la Fiat si apprestava a lanciare la 500 anche in India . 
Questi nuovi mercati emergenti, se da una parte rappresentavano un bacino importante e strategico, presentavano però anche delle difficoltà; in particolar modo quello cinese, dove le aziende domestiche, nella progettazione di nuove vetture, si ispiravano fortemente ai modelli europei. Il Lingotto aveva un procedimento legale in corso nei confronti della Great Wall, rea, secondo i vertici torinesi, di aver clonato la Fiat Panda, ribattezzandola col nome “Peri”. Mentre il Tribunale di Torino dava ragione a Fiat, stabilendo quindicimila euro di multa per ogni esemplare di Peri importato in Italia , la corte di Shijiazhuang autorizzava pochi giorni dopo la commercializzazione del modello nel mercato interno . 
In ogni caso il Gruppo Fiat chiudeva il primo semestre con ottimi risultati: aumentando del 14,6% i ricavi e dell’11,4% le consegne globali . Risultati a cui contribuiva il grande successo della 500, la cui produzione annuale veniva incrementata nuovamente, a duecentomila unità . 

sabato 11 febbraio 2012

La storia della crisi parte 7: l'Italia e l'Europa


Se nel mercato americano i prodromi della crisi erano già riscontrabili nei dati di vendita del 2007, in Europa e soprattutto in Italia non si parlava affatto di recessione. Anzi, il mercato dell’auto nostrano aveva fatto segnare in quell’anno un risultato da record: 2.490.570 vetture immatricolate, per una crescita del 7,07% rispetto all’anno precedente. Per il raggiungimento di questi numeri erano stati determinanti gli incentivi statali a favore delle auto con basse emissioni di CO2. Questo importante esito era in controtendenza rispetto agli altri mercati continentali; addirittura, se la performance italiana non fosse stata tale, il mercato europeo avrebbe chiuso in perdita l’annata 2007. Infatti il totale delle vetture immatricolate in Europa si attestava a 15.958.871 esemplari, ovvero una crescita dell’1,1% rispetto all’anno precedente. 
Nei mercati principali si assisteva a una sostanziale stabilità: la Spagna perdeva l’1,2%, Francia e Gran Bretagna guadagnavano rispettivamente il 3,2% e il 2,5%; solo il mercato tedesco faceva registrare un passivo consistente, pari al 9,2%. La classifica delle vendite dei marchi vedeva Volkswagen saldamente in testa (-1,1% - 2.885.185 unità), seguita da PSA Peugeot-Citroen (+0,6% - 1.942.767) e da Ford (+1,1% - 1.582.934). Il modello più venduto nel Vecchio Continente era la Peugeot 207 (437.505 unità), seguita dalla sempreverde VW Golf (435.005 unità) e dalla Ford Focus (406.557 unità). 
Il Gruppo Fiat si piazzava al sesto posto, grazie a un ottimo +7,1%, pari a 1.192.799 unità vendute. I buoni risultati della Casa torinese sul mercato europeo erano accompagnati da quelli altrettanto buoni sul mercato domestico: il brand Fiat teneva saldamente la testa della classifica delle immatricolazioni con 602.927 esemplari, con una crescita del 10,8%, pari a una quota di mercato del 24,2%. Il dato complessivo del portafoglio marchi portava invece a una quota del 31,4%, con una crescita dell’immatricolato totale del 9,2%. Anche la situazione finanziaria del Lingotto era in crescita: l’utile netto dell’ esercizio 2007 era di due miliardi di euro, ma soprattutto era stato azzerato l’indebitamento netto industriale. Ottime notizie arrivavano anche dalla neonata “500”: il successo era tale che veniva aumentata la produzione a 150.000 esemplari l’anno. 
Il primo mese del 2008, invece, portava notizie meno confortanti: a gennaio le vendite erano calate del 7,26% rispetto al 2007; anche gli ordini erano scesi del 32%. Nel commentare questi dati bisogna però considerare che gennaio 2007 era stato il primo mese di incentivi dopo una lunga attesa, con conseguente boom di vendite, e che nel mese di dicembre molti acquirenti indecisi si erano affrettati a comprare, nel timore che gli incentivi non sarebbero stati confermati. Il brand Fiat si confermava comunque leader del mercato, perdendo solo lo 0,41%, e il risultato negativo del Gruppo (-6,5%) dipendeva principalmente dal sensibile calo di Alfa Romeo (-55%), dovuto al temporaneo stop dell’impianto di Pomigliano D’Arco. 
Anche per il mercato europeo il primo mese del 2008 non era esaltante: rispetto al gennaio 2007 la flessione totale era dello 0,3%, pari a 1.308.761 vetture consegnate. I primi tre posti della classifica per marchi restavano invariati, mentre il Gruppo Fiat sopravanzava Renault salendo al quinto posto. I cinque principali mercati continentali (Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia e Spagna) calavano tutti, tranne quello tedesco che guadagnava il 10,5%. Anche grazie a questa crescita, la VW Golf tornava in testa alla classifica dei modelli più venduti in Europa, con un incremento del 31,4% rispetto al gennaio 2007. 
Nel febbraio del 2008 il Parlamento convertiva in legge il decreto Milleproroghe, rendendo effettiva l’erogazione degli incentivi statali; chi rottamava un’auto Euro0, Euro1 o Euro2, immatricolata entro il 31 dicembre 1996, avrebbe beneficiato di settecento euro provenienti dalle casse dello Stato, se avesse acquistato un’auto a basse emissioni (fino a 140g/km se diesel, fino a 130g/km se benzina). Inoltre erano previsti ulteriori incentivi per l’acquisto di auto a metano e a Gpl, o per la trasformazione a gas e/o Gpl. 
Intanto Fiat doveva fronteggiare uno stop produttivo del motore 1.3 multijet, che provocava un blocco della produzione di alcuni veicoli per diversi giorni. Ciononostante il successo della 500 continuava a tal punto, che sembrava necessario aumentare il numero delle auto prodotte a centonovantamila unità l’anno. Questo successo, unitamente a quello delle altre “piccole” della gamma, permetteva al brand Fiat di mantenersi saldamente al primo posto anche nella classifica delle vendite di febbraio, e di restare in pareggio rispetto al febbraio 2007, sebbene il mercato perdesse circa il 4%. Ma al Lingotto si guardava anche al futuro, acquistando una fabbrica in Brasile dove produrre motori destinati al Sudamerica; e investendo in India attraverso la joint-venture con il marchio Tata. 
Nel mese di marzo si chiudeva il primo trimestre 2008 e si iniziava a parlare distintamente di crisi del mercato dell’auto. Il totale delle vendite era diminuito del 10% rispetto ai primi tre mesi del 2007, mentre la perdita del solo mese di marzo era del 18,7%. Gli incentivi statali, quindi, si dimostravano insufficienti ad arginare la recessione del mercato, anche perché questo era cresciuto ininterrottamente per undici anni e un periodo di calo fisiologico sembrava inevitabile. Ma il dato riguardante i contratti era ancora più negativo; infatti nei primi tre mesi dell’anno gli ordini totali erano scesi del 24%. L’unica nota positiva veniva dall’andamento delle vendite delle vetture aziendali: nel trimestre erano cresciute del 4,9%, probabilmente grazie al più favorevole trattamento fiscale introdotto con l’ultima finanziaria. In casa Fiat il core brand conteneva le perdite (-16,4% a marzo e -5,6% nel trimestre), ma le performance negative di Alfa Romeo (-53,5% trimestrale) e Lancia (-15,1% trimestrale) incidevano sul risultato del Gruppo, che nei primi tre mesi dell’anno perdeva l’11,7%. 
Secondo il periodico specializzato Quattroruote il calo delle vendite era anche sintomo di un cambiamento delle richieste dei consumatori, i quali puntavano sempre di più sulle auto ecologiche (la quota di mercato delle auto a Gpl e a metano era passata dal 2,9% del primo trimestre 2007, al 5,3% di quello 2008) a scapito di quelle diesel; mentre le case costruttrici e le reti commerciali non erano ancora pronte a soddisfare questo mutamento dei gusti. Inoltre, sempre secondo Quattroruote, gli incentivi erano poco efficaci, visto che riguardavano le stesse vecchie auto già comprese nel provvedimento del 2007. 
Ugualmente in Europa si delineavano i primi segnali di crisi. Il trimestre si chiudeva con una flessione complessiva del 1,7% rispetto ai primi tre mesi del 2007; il mese di marzo addirittura con una perdita del 9,5% sul marzo 2007. I mercati francese e tedesco guadagnavano, su base trimestrale, rispettivamente l’1,3% e il 2,6%; dal mercato britannico, invece, arrivavano i primi scricchiolii (-0,5%), mentre il tonfo vero e proprio era del mercato spagnolo (-15,3%). La classifica dei Gruppi automobilistici sanciva la flessione trimestrale di tutti gli occupanti del podio: VW -2,6%, PSA -4,7%, Ford -5,4%. L’auto più venduta del trimestre era la VW Golf, seguita, con sole quattrocentocinque unità in meno, dalla Peugeot 207. Le reazioni dei primi due Gruppi d’Europa erano differenti: se VW, forte del suo ottimo bilancio 2007, premiava ogni singolo dipendente tedesco con un bonus di 3700€, il presidente di PSA prevedeva un trend di mercato al ribasso, per il 2008, e dichiarava che c’erano “evidenti difficoltà”.

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venerdì 3 febbraio 2012

La storia della crisi parte 6: i primi segnali di ripresa


Il biennio 2008-2009 è stato decisamente disastroso per il mercato americano dell’auto; in ognuno dei due anni sono stati venduti tre milioni di veicoli in meno rispetto ai dodici mesi precedenti. Le oltre sedici milioni di unità vendute nel 2007 sono ormai un lontano ricordo. Questo tremendo biennio ha visto anche il fallimento e la rinascita di GM e Chrysler, l’ascesa dei costruttori giapponesi e la fine dell’invincibilità del mercato statunitense. Quelle che una volta venivano chiamate le Big Three sono ora chiamate alla sfida più importante della loro storia: risorgere o scomparire. 
Il 2010, invece, inizia con un incoraggiante +6% nel mese di gennaio; Chrysler annaspa ancora con un -8%, GM risale con un +14% e Ford si conferma la più in salute con un + 25% nelle vendite; ma le prime tre auto più vendute sono ancora giapponesi. Ford si è liberata di Volvo vedendola ai cinesi di Geely per la cifra di due miliardi dollari. GM ha fatto lo stesso con Saab; l’accordo con Spyker, dopo complicate trattative, è stato raggiunto sulla base di quattrocento milioni di dollari. Un destino diverso attendeva invece il marchio Hummer: l’azienda cinese Sichuan Tengzhong non aveva ottenuto il benestare da parte del Governo di Pechino, cosicché, in assenza di compratori, il brand sarebbe stato progressivamente smantellato. 
In ogni caso, alla fine del primo trimestre 2010, la situazione dell’industria dell’auto americana è decisamente migliore di quello che ci si potesse aspettare: Ford non ha più conti in rosso e ha aumentato la sua quota sul mercato domestico di 2,7 punti percentuali, arrivando al 16,6%; inoltre prepara il lancio della nuova Focus, progettata per essere venduta in 122 paesi. GM ha già restituito gli aiuti governativi e ritorna ad investire in nuovi stabilimenti; in più, le sue vendite crescono del 20% e la sua quota di mercato si attesta al 18,7%. Senza contare che approfitta dei problemi di Toyota, offrendo sconti speciali ai possessori di auto del colosso giapponese, e si prepara a far debuttare sul mercato l’attesissima Volt e la nuova compatta Aveo, per essere competitiva anche nel segmento sub-compact. 
Anche Chrysler sorprende, con un ritorno all’utile operativo nel primo trimestre (per 143 milioni di dollari) grazie alla risalita della sua quota di mercato fino al 9,1%; tutto ciò in attesa dei nuovi modelli elettrici che saranno lanciati entro breve tempo. Il quadro generale che emerge lascia ben sperare per il futuro dell’auto made in USA. Il mercato ha sostenuto una reazione non facile, che ha comportato un continuo cambio di vertici dirigenziali, sacrifici da parte del Governo, rinunce per i lavoratori americani e canadesi, la perdita di tanti posti di lavoro. Una reazione che ha costretto il popolo Americano a  confrontarsi per la prima volta con industrie nazionalizzate, con auto ecologiche e motori più piccoli dai bassi consumi. Una reazione che ha visto minate seriamente le fondamenta stesse del mito del liberismo a tutti i costi e di una certa parte del “sogno americano”, quello fatto di grandi auto, spinte da motori potenti e da grandi quantità di benzina. 

giovedì 19 gennaio 2012

La storia della crisi parte 5: il punto più basso


Sono arrivate buone notizie anche per GM, ma non dal mercato: il Tribunale Fallimentare di Manhattan ha dato il via libera per la vendita degli asset sani alla “nuova GM”, controllata dai Governi americano e canadese, e da un fondo pensione della UawParallelamente è proseguito lo sviluppo dei nuovi veicoli ibridi ed elettrici, visto anche l’impegno che è stato preso con il Governo per lanciare almeno quattordici modelli ibridi entro il 2012. Sempre secondo gli stessi accordi la nuova GM è nata con una struttura molto più snella: la cosiddetta “catena del comando” è stata ridotta del 35%, creando un comitato esecutivo ristretto per le decisioni quotidiane; i marchi su cui puntare si sono ridotti ai quattro più redditizi, cioè Chevrolet, Cadillac, Buick e GMC; ma è il confronto dei numeri che evidenzia nettamente le differenze rispetto alla vecchia azienda: trentaquattro impianti contro quarantasette, sessantaquattromila dipendenti in Nord America contro novantunomila, e tremilaseicento concessionari contro i seimila precedenti. La GM è ormai diventata un’azienda statale a tutti gli effetti, partecipata per il 60,8% dal Governo americano, per l’11,7% da quello canadese, dai sindacati per il 17,5% e solo per il restante 10% dalla “vecchia GM”Nel mese di luglio, dopo aver sistemato le sorti societarie delle due “Big” in affanno, l’Amministrazione Obama darà un segnale forte sia all’industria dell’auto nazionale, sia ai consumatori, varando un piano di incentivi strettamente legato all’acquisto di auto ecologiche, il Car Allowance Rebate System: le più parsimoniose tra queste godranno di un incentivo fino a quattromilacinquecento dollari. Si prova così a favorire la ripresa del mercatoChrysler ha cercato di approfittarne subito, varando una campagna di sconti che consente di raddoppiare l’ecoincentivo statale; contemporaneamente ha lanciato una sfida decidendo di mantenere in produzione la sua icona supersportiva marchiata Dodge, la ViperIl mercato reagisce positivamente, i fondi governativi sono esauriti in meno di una settimana e il passivo delle vendite di luglio, rispetto al luglio 2008, viene contenuto entro il 12%. Per Ford, addirittura, c’è stato un ritorno al segno positivo (+2,3%) dopo diciannove mesi consecutivi di cali delle vendite; tant’è che la dirigenza non ha più fretta di liberarsi del brand Volvo, ma ha deciso di attendere qualche mese per valutare il cambiamento sullo scacchiere mondiale dei costruttori di automobili. La casa di Dearnborn ha confermato di essere la più preparata ad affrontare il futuro, puntando a rinnovare circa l’80% della propria gamma veicoli entro il 2012 ed essendo riuscita a tagliare i costi per lo sviluppo di nuovi modelli del 60%Alla GM le cose sono andate peggio; al termine del primo semestre Toyota ha continuato a mantenere la leadership mondiale. Ciononostante la nuova dirigenza ha reagito, dichiarando di voler assolutamente mantenere la sua storica leadership nel mercato domestico e presentando il nuovo business plan, che ha previsto l’uscita di venticinque nuovi modelli entro il 2011 e la creazione di nuovi strumenti per permettere un contatto più diretto e bidirezionale con i consumatori e con gli appassionati del marchio. Nello stesso tempo viene annunciata la cessione del marchio Saab alla KoenigseggIntanto la campagna di ecoincentivi “Cash for clunkers” ha registrato un successo superiore a ogni più rosea aspettativa: inizialmente si pensava che il miliardo di dollari stanziato sarebbe durato fino al primo novembre; invece, nonostante l’iniezione di altri due miliardi, i fondi si sono esauriti già prima della fine di agosto. Anche le previsioni sulle immatricolazioni che sarebbero avvenute sotto l’ombrello degli incentivi (duecentocinquantamila unità) si sono rivelate striminzite, visto che di auto nuove ne sono state vendute ben seicentonovantamilaSe il mercato dell’auto ad agosto è ritornato, per la prima volta nell’anno, sopra il milione di esemplari venduti, con una crescita dell’1% rispetto allo stesso mese del 2008, invertendo così un trend negativo che durava dall’ottobre del 2007, le cose non sono andate altrettanto bene per i costruttori locali. A parte Ford (unica impresa rimasta fuori dal controllo statale) che ha registrato un incremento del 17,2%, le controllate GM e Chrysler hanno perso rispettivamente il 20,1% e il 15,4%; sorridono invece i giapponesi (Toyota +6,4% e Honda +9,9%). La vettura più venduta è risultata la Toyota CorollaMa nel mese di settembre il mercato è già tornato a perdere. La flessione complessiva, rispetto a settembre 2008, si è attestata al 25,8%,. Ford ha limitato i danni con una perdita del 9,6% mentre GM e Chrysler sono tornate a decrementi dell’ordine del 45%. Il terzo trimestre 2009 si è chiuso con tre milioni di veicoli in meno rispetto allo stesso periodo del 2008, cioè con un calo del 27,1%Alla GM si è continuato a lavorare alacremente per la ristrutturazione dell’azienda e la ripresa delle vendite: nel mese di ottobre viene perfezionato l’accordo per la cessione del brand Hummer e parallelamente viene aumentata la quota partecipativa in GM Daewoo Auto & Technology; in questo modo la dirigenza ha dimostrato di credere nell’emergente mercato coreano e altresì nello sviluppo di auto di piccole dimensioniNello stesso periodo in Fiat-Chrysler hanno preparato il piano di salvataggio della azienda di Auburn Hills, che sarebbe stato presentato alla stampa, peraltro molto scettica, e all’opinione pubblica entro pochi giorni. Contemporaneamente, Ford ha sorpreso tutti gli analisti del mercato tornando all’utile, per 997 milioni di dollari, nel terzo trimestre 2009L’altra grande sorpresa positiva è stata il ritorno all’incremento delle vendite di GM (+1%) nel mese di ottobre. Ford è sostanzialmente in pareggio (-0,9%), mentre Chrysler ha perso ancora il 32,9%. Il dato generale delle vendite ha registrato un incremento minimo rispetto a ottobre 2008, quantificato in sole duecentocinquanta vetture in piùNei primi giorni di novembre viene finalmente presentato il business plan di Fiat-Chrysler. Le due Case hanno deciso di dividersi i compiti riguardo ai propulsori: al Lingotto si occuperanno delle piccole e medie cilindrate, mentre ad Auburn Hills si concentreranno sui motori di grossa cilindrata e sulla propulsione ibrida ed elettrica; i pianali su cui sviluppare le auto, ridotti nel numero totale, saranno messi in comune, diventando allo stesso tempo più flessibili. Insomma, lo scambio di tecnologie e know-how è diventato totale. Gli obiettivi dichiarati sono molto ambiziosi: ventitré miliardi di investimenti in cinque anni, Break Even Point raggiunto nel 2010, prestiti governativi restituiti e vendite raddoppiate entro il 2014Nel mese di novembre l’andamento del mercato ha confermato una stabilità incoraggiante, rispetto al novembre 2008 sono state consegnate seicentoventisette vetture in più. Chrysler è l’unica delle Big Three che ha continuato a perdere, anche se meno (il 19%), mentre Ford ha confermato il proprio stato di ritrovata salute con un +8,6% e GM ha fatto un salto in avanti registrando un +6,8%Grazie alla ripresa delle vendite ed a risultati finanziari incoraggianti, GM ha iniziato a restituire i prestiti governativi in anticipo rispetto alla tabella di marciaIn questo stesso periodo si sono rotte le trattative tra Koenigsegg e GM per la cessione del marchio Saab: l’atelier scandinavo di auto sportive, non potendo più contare sul supporto dei cinesi della Baic, si è ritirata dall’affare. A questo punto il futuro della Casa di Trollhättan ha i giorni contati: agli inizi di dicembre il Consiglio di Amministrazione di GM ha fissato come data limite, per trovare un acquirente ed evitare la liquidazione, il 31 dicembre. Proprio a causa del fallimento di questa trattativa, e, seppure in misura minore, anche di quella per la cessione del brand Saturn, l’amministratore delegato Henderson viene rimosso dal suo incaricoDurante gli ultimi giorni di novembre si è palesato un importante problema anche per Toyota: il colosso giapponese, dopo un lungo braccio di ferro con l’Hntsa, l’Ente federale per la sicurezza, ha annunciato un richiamo riguardante quasi quattro milioni di veicoli, venduti negli ultimi cinque anni. Il difetto all’origine del richiamo riguarda un possibile malfunzionamento del pedale dell’acceleratore, che si sospetta abbia già causato duecento incidenti, alcuni dei quali mortaliNell’ultimo mese dell’anno sono attesi i dati di vendita per stilare un bilancio preciso dei risultati del mercato. Al quartiere generale GM si è deciso di puntare forte sulla rivoluzionaria Chevrolet Volt, la prima auto elettrica extended-range, che necessita di un investimento di trecentotrentasei milioni di dollari, per poter avviare la sua linea produttiva. Contemporaneamente si sta cercando una soluzione al problema Saab: nell’attesa di un acquirente, vengono venduti alla cinese Baic i diritti di produzione e anche le linee di montaggio dei modelli 9-3 e 9-5, che sarebbero usciti di produzione di lì a poco. Le trattative per la cessione del brand hanno trovato un nuovo interlocutore in Spyker, un piccolo atelier olandese di auto sportive, ma i tempi brevissimi a disposizione hanno portato alla bocciatura della prima offerta. Tuttavia Spyker non demorde e annuncia la presentazione di una nuova offerta entro il 7 gennaioIl 2009 si è chiuso con il mese di dicembre in salita del 14,9% rispetto al dicembre precedente; nonostante questo, il mercato ha perso il 21,4% su base annuale, fermandosi a poco più di dieci milioni di veicoli. Ma, soprattutto, il mercato dell’auto americano ha perso per la prima volta la sua leadership mondiale a favore di quello cinese, che nel 2009 è andato ben oltre i tredici milioni di veicoli

lunedì 16 gennaio 2012

La storia della crisi parte 4: prosegue la discesa

Nel 2008 dunque il mercato nordamericano ha perso quasi un quinto del suo volume in un solo anno. E i dati di vendita del primo mese del 2009 (-37,3% rispetto a gennaio 2008, pari a 653.215 vetture) continuano a non apparire confortanti: il livello delle vendite è tornato alla quota del 1981. La crisi sembra inarrestabile e, secondo gli analisti, non si sarebbero superati, a fine anno, i nove milioni e mezzo di veicoli venduti, consentendo così alla Cina (stimata a nove milioni e ottocentomila unità) di operare lo storico sorpasso sul mercato. L’andamento delle Big Three è stato disastroso: GM e Chrysler hanno perso oltre il 50%, Ford più del 40%. Inoltre, la loro incidenza sulla produzione totale annuale del mercato domestico è scesa per la prima volta sotto il 60%, confermando un inarrestabile calo, iniziato nel 1989, quando la percentuale scese per la prima volta sotto il 90%Il 2008, inoltre, ha anche visto GM perdere la leadership mondiale delle vendite a favore di Toyota (con circa seicentomila veicoli in più immatricolati a favore del colosso giapponese). Mentre Ford ha chiuso il 2008 con il peggior bilancio della sua storia, registrando perdite per quasi quindici miliardi di dollariPer Chrysler la situazione è ancora peggiore: benché nominalmente appartenga ancora alle Big Three, la sua grandezza è un lontano ricordo; i livelli di vendita degli ultimi anni, culminati nel 2008 a meno di un milione e mezzo di unità, ne fanno ormai un costruttore di secondo piano. Secondo Global Insight, nonostante il prestito di quattro miliardi di dollari da poco ottenuto dal Governo, nelle condizioni in cui versa avrà difficoltà a sopravvivere oltre il primo trimestre dell’anno. Il problema principale di Chrysler è derivato dal fallimento del matrimonio con il gruppo Daimler; la casa americana è sprovvista di piattaforme su cui sviluppare nuovi modelli, soprattutto di dimensioni compatte, come il mercato richiedeQuesto è stato il motivo principale dell’avvio delle trattative con Fiat. Nel mese di gennaio si è iniziato a discutere l’accordo tra i due gruppi, del quale già si vociferava da qualche settimana. Fiat acquisirebbe il 35% della casa americana, pagandolo con la condivisione delle proprie piattaforme e dei propri motori di piccola e media cilindrata su cui sviluppare nuovi prodotti, ottenendo in cambio una via preferenziale d’accesso al mercato nordamericano e il know-how tecnologico di Chrysler relativo ai veicoli elettriciNel frattempo, le due case di Detroit hanno continuato a chiedere prestiti al Governo americano: GM per circa quindici miliardi di dollari e Chrysler per altri cinque. Queste richieste sono accompagnate da drastici piani di ristrutturazione: GM ha previsto di tagliare quarantasettemila posti di lavoro e brand importanti come Hummer, Saab e Saturn; di concentrarsi sui core brand, riducendo la gamma dei modelli del 25%; di ridurre drasticamente la rete commerciale e chiudere i battenti di quattordici fabbriche. Inoltre, ha già preso provvedimenti per il breve termine come il licenziamento di tremilaquattrocento impiegati e la riduzione generalizzata degli stipendi del 10%Ad Auburn Hills viene presentata l’alleanza con Fiat come il punto di partenza per un grande rilancio e programmato il taglio di altri tremila posti di lavoro, la chiusura di una linea produttiva e l’estinzione di tre modelliIntanto a febbraio le immatricolazioni hanno seguitato a calare di oltre il 40% rispetto all’anno precedenteDei tre grandi costruttori nazionali Ford è quello che sembra reagire meglio alla crisi. I suoi alti dirigenti non hanno avuto paura di prendere decisioni drastiche, come tagliarsi lo stipendio del 30%, e allo stesso tempo puntare sull’auto elettrica e ibrida, dimostrando di essere reattivi verso le richieste del mercato e potendo permettersi di non usufruire degli aiuti stataliInvece l’idea dell’alleanza con la Fiat non è piaciuta a molti parlamentari americani, nella misura in cui porterebbe, seppur indirettamente, i soldi dei contribuenti americani nelle casse di un costruttore straniero. La stessa alleanza darebbe però la possibilità a Chrysler di salvarsi dal fallimento e conservare circa cinquemila posti di lavoro nordamericaniNel mese di marzo la perdita del mercato è stata pari al 36,8% e GM ha annunciato la possibilità sempre più concreta di avviare la procedura di bancarotta. Negli ultimi giorni dello stesso mese sono arrivate le prime decisioni del Governo in merito alle richieste di intervento statale. Riguardo a Chrysler, il Presidente Obama stesso ha dichiarato di ritenere la situazione molto grave e, pur elogiando il management Fiat per l’operato degli ultimi cinque anni, ha subordinato la concessione dei sei miliardi di aiuti alla presentazione, entro trenta giorni, di un nuovo piano che soddisfi alcuni punti fondamentali richiesti dalla Casa Bianca (ad esempio il mantenimento degli stabilimenti in USA); inoltre ha imposto che la Fiat non possa acquisire la maggioranza di Chrysler, finché questa non abbia restituito il prestito. Nello stesso giorno a Auburn Hills si annuncia di aver raggiunto una bozza di accordo con Torino, approvata dal Dipartimento del Tesoro degli Stati UnitiIl piano di GM, invece, non viene approvato e ciò costa la poltrona al Ceo Rick Wagoner,sostituito da Fritz Henderson (a capo delle operazioni finanziarie) e da Kent Kresa (presidente per gli incarichi esecutivi). Alla nuova dirigenza viene dato un ultimatum di sessanta giorni per preparare un nuovo piano, degno dell’erogazione di oltre sedici miliardi di aiuti stataliIl mese di aprile ha registrato il diciottesimo calo delle vendite consecutivo, 815.393 unità in meno rispetto al 2008, ovvero un decremento del 34,3%Lo stesso mese di aprile sarà cruciale per la definizione dell’accordo tra Fiat e Chrysler. Le negoziazioni sono apparse tutt’altro che facili, visto che tra le parti in causa ci sono anche diverse banche creditrici (JP Morgan, Citigroup, Goldman Sachs e Morgan Stanley), il sindacato americano (Uaw) e quello canadese (Caw). Proprio quest’ultimo non avrebbe voluto accettare la riduzione del 20% della paga oraria dei lavoratori, una condizione ritenuta imprescindibile da Marchionne per siglare l’accordo. Ma il 27 di aprile, grazie anche alla mediazione effettuata dall’amministrazione di Barack Obama, viene raggiunto l’accordo con entrambe le organizzazioni sindacali. La Uaw, in cambio dell’accettazione delle condizioni chieste dal Lingotto, ha ottenuto una quota di partecipazione nella Chrysler vicina al 50%. Le banche creditrici, dal canto loro, hanno accettato di svalutare i propri crediti, passando da sette a due miliardi di dollari, in cambio di una quota azionaria nell’ordine del 10%. La fusione viene ufficializzata il 30 di aprile, anche se la società dovrà transitare per la Corte per la bancarotta di Manhattan per un periodo di amministrazione controllata compreso tra i trenta e i sessanta giorni, visto che non tutti i creditori hanno accettato le condizioni proposte. Grazie a questo accordo si sono riuscite a salvare decine di migliaia di posti di lavoro, mentre il governo ha deciso di erogare subito tre miliardi e mezzo di dollari, degli otto totali di aiuti, promessi in caso di accordo con Fiat. La NewCo (nuova società) che nascerà dalla procedura fallimentare, vedrà Fiat padrona del 20% del capitale, i fondi pensione dei lavoratori del 55% e i governi americano e canadese del 10%. Inoltre il Lingotto riceverà un ulteriore 15% in tre tranche diverse, al raggiungimento di determinati obiettivi, con la possibilità di salire fino al 51%, attraverso una opzione esercitabile dal 1 gennaio 2013 fino al 30 giugno 2016. Questa importante joint-venture ha dato l’opportunità a Chrysler di recuperare il tempo perduto nello sviluppo di nuovi modelli, utilizzando le piattaforme e le tecnologie Fiat, potendo così tornare competitiva sul mercato; mentre ha aperto le porte del mercato nordamericano a Fiat, che potrà usufruire della rete commerciale Chrysler e sfruttare la capacità produttiva degli stabilimenti americani, che sono fortemente sottoutilizzati. Anche molti dei concessionari del marchio stanno lavorando di gran lunga sotto il loro potenziale, perciò solo tre su quattro potranno conservare il mandatoNel mese di aprile la nuova dirigenza di GM ha presentato il suo primo piano di ristrutturazione atto a ottenere il benestare del Governo americano e ad evitare l’amministrazione controllata. Lo storico marchio Pontiac sarebbe stato cancellato, ci sarebbero stati drastici tagli della forza lavoro e del numero dei concessionari, oltre alla chiusura di altri stabilimenti rispetto a quelli inizialmente preventivati. Secondo questo piano di riassetto, i vecchi azionisti avrebbero mantenuto solo l’uno per cento della quota societaria, mentre al Dipartimento del Tesoro sarebbe andato il 50% della nuova società, al sindacato Uaw il 39% e ai creditori il 10%. Ma la paura del fallimento è tale che sei top manager di GM vendono contemporaneamente tutte le azioni in loro possesso, facendo crollare le quotazioni del titolo a poco più di un dollaro per azione, cioè il minimo da 76 anni. Intanto i tagli da parte di GM sono proseguiti e ne hanno fatto le spese duemilaseicento concessionari in USA (il 40% del totale) e trecento autosaloni in Canada (il 42% del totale). Le trattative con i sindacati, invece, si sono concluse positivamente e GM potrà incassare altri quattro miliardi di dollari dal Tesoro, arrivando a un totale di quasi venti miliardi dall’inizio del 2009Purtroppo la brutta notizia arriverà dagli obbligazionisti, che non hanno accettato di riconvertire il credito nei confronti di GM; questa decisione rende vani gli accordi coi sindacati e avvicina sempre di più la soluzione della bancarotta pilotata. Così il 1 giugno 2009 viene ufficialmente aperta la procedura di fallimento controllato: il Governo è diventato il più grosso azionista della società con il 60% ed è costretto a ridimensionare drasticamente l’azienda in ogni sua parteIl mercato persiste coi segni negativi, anche se in misura minore; a maggio la perdita è contenuta al 33,7% rispetto all’anno precedente. Nello stesso mese, è arrivato anche un segnale importante dalla Casa Bianca, che ha deciso di anticipare di quattro anni (cioè entro il 2016) l’entrata in vigore dei nuovi limiti di consumoFord, nel frattempo, ha mantenuto la strategia “One Ford” e ha messo in vendita anche il brand Volvo. Stessa scelta per GM, che finalmente ha trovato un compratore per Hummer: poco importa se la nuova proprietà di uno dei marchi simbolo dell’America sarebbe stata cinese, visto che avrebbe permesso di conservare tremila posti di lavoro. Pure il brand Saturn è passato di mano, alla Penske Automotive, che salvando il marchio dall’estinzione, ha salvato circa tredicimila posti di lavoro. Infine, anche il brand Saab sta per essere ceduto; il compratore è la Koenigsegg, una piccola impresa operante in Svezia specializzata nella costruzione di supercar in piccola serie; in questo modo l’azienda di Throlläthan sarebbe ritornata svedese a tutti gli effettiIl mese di giugno è risultato decisivo per la costituzione della nuova alleanza Fiat-Chrysler. L’ultimo ostacolo da superare è stato un ricorso presentato alla Corte d’Appello di New York da alcuni fondi pensione che si sono sentiti danneggiati, poiché secondo loro l’accordo deciso dal tribunale di New York avrebbe premiato i creditori ordinari (cioè i lavoratori dell’azienda) a scapito dei creditori privilegiati, ovvero i fondi pensione stessi. Il parere favorevole della Corte è arrivato il 10 giugno: il ricorso viene respinto e nello stesso giorno viene comunicata la chiusura dell’alleanza strategica. Presidente della nuova società sarà Robert Kidder, mentre Marchionne assumerà il ruolo di Amministratore Delegato; il Consiglio di Amministrazione sarebbe stato invece composto da tre membri nominati da Fiat (compreso lo stesso Marchionne), quattro nominati dal Dipartimento del Tesoro, uno dal Governo canadese e uno dal sindacato UawMentre Chrysler e GM stanno attraversando momenti cruciali per il loro futuro, Ford ha confermato di essere l’azienda più in salute, aumentando del 16% le stime di produzione per la seconda parte dell’anno, a seguito dei buoni risultati ottenuti. Infatti nel mese di giugno, a fronte di un calo del mercato del 27,7% (rispetto allo stesso mese del 2008), ha limitato le perdite al 14,8%. Complessivamente i dati del primo semestre 2009 hanno evidenziato una perdita del 34,7% rispetto ai primi sei mesi del 2008

venerdì 23 dicembre 2011

La storia della crisi parte 3: verso il tracollo

Intanto Chrysler annunciava di voler “tagliare” circa mille agenti di vendita in tutto il mondo entro settembre 2008, mentre Ford si preparava a reagire per prima, avviando una riconversione di alcuni dei suoi siti produttivi, in modo da utilizzarli per la fabbricazione dei suoi modelli commercializzati in Europa, ovvero vetture di dimensioni e consumi più contenuti. Anche se gli analisti avevano previsto una flessione, i conti del secondo trimestre del 2008 erano ben peggiori di qualsiasi aspettativa: infatti, le perdite hanno raggiunto gli 8,7 miliardi di dollari. Nel frattempo, Global Insight ritoccava le sue previsioni di vendita relative al 2008, abbassandole da 14,7 a 14,4 milioni di unità totali. La situazione diventava difficile anche per GM: i conti del secondo trimestre del 2008 hanno evidenziato una perdita netta di 15,5 miliardi, un risultato pessimo, il terzo peggiore di sempre nella storia quasi centenaria del colosso americano, e anche allarmante, se paragonato al risultato dell’anno precedente, cioè un utile netto di 891 milioni. A queste cifre vanno sommate quelle del passivo accumulato nell’intero 2007, ammontante a trentanove miliardi di dollari. A fronte di questa preoccupante situazione, GM ha annunciato un drastico piano di ristrutturazione, che prevedeva lo spostamento della produzione verso vetture di dimensioni più contenute, più parsimoniose e meno inquinanti, a scapito di SUV e pick-up, i veicoli che hanno dato maggiori margini di guadagno, ma che sono sempre meno richiesti dal mercato. Il piano ha previsto inoltre la sospensione della distribuzione del dividendo azionario e la riduzione della forza lavoro, soprattutto riguardo i cosiddetti “colletti bianchi”. La recessione del mercato statunitense intanto è diventata inarrestabile, e nel mese di luglio 2008 si è verificato un fatto mai accaduto prima: per la prima volta nella storia, i brand giapponesi hanno conquistato una quota maggiore di mercato rispetto alle Big Three, in un singolo mese. Proprio nel periodo tra luglio e agosto si è iniziato ad usare la parola “catastrofe” al posto del termine “crisi”, vista anche la poca efficacia dei robusti sconti proposti da GM negli ultimi mesi. Ad agosto 2008 i portavoce delle Big Three si sono presentati al Parlamento americano, avendo realizzato che i venticinque miliardi di dollari di crediti, stanziati l’anno precedente dal Congresso, non sarebbero stati sufficienti per fronteggiare la recessione. Tuttavia, GM sperava di contenere i danni, rispetto al breve periodo, con la nuova politica di agevolazioni offerte a consumatori e dipendenti in occasione dei festeggiamenti per il centesimo anniversario della sua fondazione. Si dovrà assistere a un altro mese di pesante calo delle vendite che rafforza la posizione delle Big Three dinnanzi al Congresso; queste infatti hanno dichiarato di necessitare di finanziamenti fino a cinquanta miliardi di dollari, legati certamente all’investimento per la nuova generazione di auto ecologiche, ma sempre il doppio dei venticinque stanziati l’anno precedente grazie alla legge sull’energia. Queste richieste hanno destato molto scalpore nel paese che più di tutti gli altri al mondo crede nel libero mercato. L’operazione di salvataggio mediante fondi pubblici non si è configurata solo come una questione politica e finanziaria ma soprattutto come un problema sociale, dal momento che GM e Ford sono state due delle più grandi società d’America, con 263.000 dipendenti la prima e 246.000 la seconda; senza dimenticare Chrysler con i suoi 132.000 lavoratori. La “catastrofe” che si temeva per il mese di agosto è arrivata: il mercato ha continuato infatti a perdere immatricolazioni. Il dato riguardante l’ottavo mese dell’anno mostra una flessione del 15,6%, corrispondente a 1.244.993 esemplari consegnati. A questo punto, gli analisti del settore stimano un calo complessivo tra il 14% e il 19% su base annuale, corrispondenti a circa 14 milioni di veicoli, cioè il dato più basso dal 1992. Nel mese di settembre, poi, il tracollo: l’intero settore ha perso il 27,6%, non riuscendo incredibilmente a superare la soglia del milione di esemplari venduti. Questa grave perdita ha influito negativamente anche sul dato trimestrale: nei primi tre trimestri del 2008 erano state immatricolate un milione e mezzo di auto in meno rispetto al 2007, corrispondenti a un calo del 13%. Rispetto al mese di settembre, invece, Chrysler e Ford fanno registrare un record passivo del 30%, mentre GM limita i danni con un -12%. Tutto ciò è accaduto nonostante una diminuzione del prezzo della benzina e i generosi sconti che le concessionarie offrivano. Intanto nei primi giorni del mese di ottobre veniva trasformato in legge l’attesissimo stanziamento di venticinque miliardi di dollari in aiuti statali per l’industria dell’auto americana. Questo stanziamento era stato deciso durante il 2007 dal Congresso, sotto forma di prestiti agevolati, per aiutare le Big Three a sviluppare nuovi modelli in grado di rispettare le ultime norme sull’ecologia. Secondo queste norme, entro il 2020 tutti i nuovi veicoli in circolazione negli USA non avrebbero dovuto percorrere meno di dodici chilometri con un litro di benzina. Ma la recessione proseguiva e diventava sempre più profonda: i dati delle vendite del mese di ottobre hanno evidenziato un passivo rispetto all’anno precedente del 32%, pari a 834.522 veicoli. In attesa delle imminenti elezioni presidenziali e di sapere se gli aiuti statali sarebbero stati raddoppiati, le Big Three cercavano altre vie per fronteggiare la crisi e prendono addirittura in considerazione la possibilità di fondersi tra di loro. Il mese di novembre ha fatto registrare l’ennesima pesante flessione del mercato: -36,8%, pari a 742.428 immatricolazioni. I vertici in casa Ford erano parzialmente soddisfatti, avendo limitato il calo al 30%, in considerazione dei decrementi avuti da GM (41,3%) e Chrysler (47,1%). Nello stesso periodo sono definitivamente naufragate le trattative per la fusione tra GM e Chrysler, principalmente perché nessuno dei due costruttori sarebbe stato in grado di pagare i costi dell’operazione, in secondo luogo perché l’amministrazione uscente Bush si è rifiutata di finanziarla. Allo stato attuale era chiaro che Chrysler non sarebbe potuto rimanere a lungo un costruttore indipendente; le sue dimensioni e la sua debolezza al di fuori del mercato domestico non lo avrebbero consentito. A conferma di questo, Bob Nardelli dichiarava che senza aiuti pubblici sarebbe stato molto difficile per Chrysler sopravvivere.Ma anche per le altre due “Big” il momento era diventato critico e la richiesta di aiuti statali si è fatta decisamente più insistente; nel mese di novembre si discutono in maniera sempre più accesa le decisioni da prendere in merito. Le trattative non si sbloccavano poiché le Big Three, a fronte di una richiesta complessiva di venticinque miliardi di dollari, non sono in grado di presentare un piano di ristrutturazione profonda; sicché gli aiuti statali tamponerebbero solo l’emorragia, che si riaprirebbe inevitabilmente entro l’estate successiva. Così i top manager delle case americane sono stati costretti a ripresentarsi al Parlamento nei primi giorni di dicembre, esponendo i loro nuovi programmi di intervento; programmi che hanno alzato la richiesta di esborso complessivo fino a trentaquattro miliardi di dollari, di cui diciotto per GM, nove per Ford e sette per Chrysler. I nuovi piani industriali hanno previsto profonde riorganizzazioni: GM si è impegnata a concentrarsi solo su quattro marchi (Chevrolet, GMC, Buick e Cadillac) rispetto agli otto totali, a tagliare trentamila posti di lavoro, nove impianti e millesettecentocinquanta concessionari entro il 2012; Ford ha pianificato la riduzione del numero dei concessionari, la revisione dei contratti di lavoro e la produzione di nuovi veicoli ecologici, per di più dichiarando che avrebbe utilizzato i nove miliardi richiesti solo se strettamente necessario; Chrysler invece ha garantito di utilizzare gli aiuti per ridare stabilità al gruppo e cercare un partner all’estero. Inoltre i rispettivi Ceo hanno dichiarato di essere disposti a lavorare per un anno con lo stipendio simbolico di un dollaro. Le richieste delle Big Three venivano esaudite a metà dicembre: il governo metteva a disposizione subito, sotto forma di prestiti agevolati, tredici miliardi di dollari per GM e Chrysler e altri quattro miliardi entro il mese di febbraio. Solo due giorni prima Chrysler aveva annunciato la chiusura di tutte le sue fabbriche per un mese. I dati di vendita del mese di dicembre confermano il pessimo andamento di tutto il 2008: GM e Ford hanno perso rispettivamente il 31% e il 32% rispetto allo stesso mese del 2007, Chrysler è crollata con un -53%. La flessione mensile è stata del 35% corrispondenti a 896.124 nuove vetture. Scorrendo a consuntivo i dati su base annuale, il numero delle immatricolazioni totali per l’anno 2008 in USA, circa tredici milioni di autovetture, è diminuito del 18,4% rispetto all’anno precedente. Le perdite delle Big Three sono risultate addirittura superiori, ammontando al 22,7% per GM, al 20,5% per Ford e al 30% per Chrysler.

La storia della crisi, parte 2: inizia il calo delle vendite


Gli effetti della crisi economica non avrebbero tardato a farsi sentire anche sul mercato dell’auto, che nel 2007 il mercato dell’auto USA ha registrato il livello più basso di vendite degli ultimi dieci anni. Inoltre, Toyota è balzata, per la prima volta, al secondo posto delle classifiche di vendita, scalzando Ford e seconda solo a General Motors. Ford manteneva il secondo posto nelle classifiche di vendita interne per ben settantacinque anni. Il sorpasso, per la verità, è avvenuto grazie a un numero di veicoli relativamente piccolo rispetto alle cifre del mercato statunitense (48.226), tuttavia è molto indicativo rispetto al periodo di crisi in cui Ford era ormai entrata. E infatti, proprio all’inizio del 2008, l’azienda ha deciso di mettere in vendita i cosiddetti “gioielli della Corona”, ovvero i marchi Land Rover e Jaguar, dopo che nel marzo del 2007 si era già liberata di Aston Martin, vendendola a una cordata di imprenditori mediorientali capitanati da David Richards, già presidente della Prodrive, famosa azienda britannica attiva nel mondo delle competizioni. Le trattative per la cessione dei due prestigiosi marchi hanno visto come interlocutore privilegiato Tata. Le cessioni di questi marchi da parte di Ford sono state determinate dall’attuazione della nuova politica commerciale voluta dal Ceo Alan Mullaly, insediatosi alla guida dell’azienda nell’agosto 2006. Mullaly ha messo a punto il piano “One Ford”, ovvero un piano industriale nato con l’intenzione di concentrare tutte le risorse dell’azienda attorno al marchio Ford e allo stesso tempo riunire sotto un unico tetto le tante divisioni dell’azienda sparse per il mondo. Inoltre Mullaly, con una certa lungimiranza, ha chiesto e ottenuto un finanziamento di diciotto miliardi di dollari da diverse banche, assicurando così all’azienda la liquidità necessaria per affrontare l’imminente crisi. Nel mercato Usa, la flessione del numero totale di auto vendute rispetto al 2006 si è attestata al 2,8% e il totale di autovetture e truck (SUV, MPV e pick-up9) immatricolate è stato di 16.130.002 di esemplari. In questa flessione ha avuto un ruolo importante il rincaro dei prezzi dei carburanti; infatti nell’anno 2007 il prezzo al barile del petrolio ha raggiunto la ragguardevole cifra di cento dollari. Guardando le cifre inerenti il mercato nell’anno 2007, si osserva una diminuzione del 6,2% per GM, pari a 3,79 milioni di veicoli immatricolati. Le prime avvisaglie dell’ingresso in questo difficile periodo hanno trovato poi conferma nei dati di vendite di gennaio 2008. L’anno è partito a rilento, il numero totale di auto e truck immatricolati è stato di 1.040.899 pezzi; il calo rispetto a gennaio 2007 è stato pari al 4,4%. Il mese successivo la situazione è peggiorata: i dati di vendita sono stati tutt’altro che incoraggianti e la flessione su base mensile è stata questa volta del 10,2%, ovvero 1.175.884 unità vendute sommando auto e truck. Il panorama ha iniziato, quindi, a diventare fosco: il calo delle vendite delle cosiddette “big three” (GM, Ford e Chrysler) è diventato pesante, attestandosi rispettivamente al -16,3%, -10,2% e -17,4%. Anche Toyota è parsa in difficoltà, riportando un calo del 6,6%. La J&D Power Associates stimava che le vendite sul mercato USA nel 2008 avrebbero raggiunto il livello più basso degli ultimi dieci anni. In questo scenario non incoraggiante, si è aperta a metà gennaio la centounesima edizione del tradizionale Salone di Detroit. Alle difficoltà economico-finanziarie si sono aggiunti anche problemi di identità dei brand e di creatività. La conferma di queste difficoltà è arrivata dai classici show a cui le case americane affidano la presentazione dei nuovi modelli. Al grandioso spettacolo per il nuovo Ford F-150 (il pick-up best seller del mercato degli ultimi trenta anni) e alla grande parata in stile western che ha accompagnato nel salone il nuovo Dodge Ram, ha fatto da contraltare la comparsa di alcune auto di taglia piccola, come la world car Ford Verve (che prefigurava la nuova generazione di Ford Fiesta). Questa è stata una novità assoluta per il pubblico americano. Ma secondo Ford, le small car avrebbero fatto la parte del leone sul mercato negli anni successivi, passando dalle ottocentomila unità vendute nel 2007 a ben tre milioni e mezzo nel 2012. Questa previsione ha trovato d’accordo anche i vertici di GM e di Toyota, che seguendo l’esempio di Ford, hanno presentato la Chevrolet Aveo e la Toyota Yaris, due vetture compatte nate in Europa. È qui che si è palesata la crisi di identità di alcuni brand automobilistici, in questa dicotomia tra i veicoli che una grande parte del pubblico USA continuava a ritenere immancabili e i mezzi di nuova generazione, più piccoli, parsimoniosi e meno inquinanti, di cui gli stand delle Big Three avevano iniziato a popolarsi. D’altro canto, nel 2007, il Congresso degli Stati Uniti aveva fissato nuovi limiti di consumo per le autovetture, di trentacinque miglia per gallone, pari a circa dodici chilometri per litro, limiti che tutte le automobili circolanti in USA avrebbero dovuto rispettare entro il 2020. Ovviamente le tre grandi aziende USA hanno prontamente dimostrato di essere attente al nuovo tema dell’ecologia. La GM per prima ha annunciato l’interruzione dello sviluppo del suo storico motore a otto cilindri (V8 Northstar) e contemporaneamente l’intenzione di commercializzare otto modelli ibridi nel 2008 e altri sedici modelli nei successivi quattro anni. Ford ha puntato invece nell’immediato a una tecnologia più sfruttabile, ovvero l’uso dell’etanolo (già diffuso in America Latina) al posto della benzina, offrendo trentacinque modelli con la doppia alimentazione. Contemporaneamente non ha perso di vista lo sviluppo dell’ibrido, presentando il prototipo “Escape Plug-in” e ha continuato a lavorare sui classici motori termici per renderli più efficienti, sviluppando una nuova tecnologia, denominata EcoBoost, che sfrutta l’iniezione diretta di benzina ad altra pressione, in combinazione con la sovralimentazione. Anche Chrysler ha iniziato a impegnarsi nella riduzione dei consumi e delle emissioni, presentando la propria soluzione, ovvero l’utilizzo di un motore elettrico principale ad alta potenza coadiuvato da un propulsore termico più piccolo per aumentare l’autonomia del veicolo. Nel frattempo, però, il mercato ha continuato a registrare diminuzioni delle vendite. Le immatricolazioni del primo trimestre 2008 hanno subito  un calo del 7,4% rispetto al primo trimestre dell’anno precedente. Questo dato ha portato a rivedere al ribasso le previsioni di vendita per il 2008: rispetto ai 16,1 milioni di veicoli venduti nel 2007, le stime di Autodata Corporation hanno previsto 15,3 milioni di unità per il 2008; più pessimista invece J.D. Power, che ha ipotizzato vendite pari a 14.95 milioni di veicoli. Proprio a proposito di queste cifre, i portavoce delle Big Three dichiaravano che il trimestre che stava iniziando sarebbe stato il peggiore del 2008. Sugli scarsi risultati di vendita ha iniziato a pesare la crescente difficoltà ad ottenere credito: secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, Gmac ha alzato tre volte gli standard minimi per concedere finanziamenti alla clientela; provvedimenti simili sono stati decisi anche da AmeriCredit e Sovereign Bancorp, con il risultato che per i consumatori è stato sempre più difficile accedere al credito per l’acquisto di un’auto, nonostante il taglio dei tassi di interesse operato dalla Fed. E’ evidente che le Big Three dovessero concepire nuove strategie di prodotto per mettersi al passo con le richieste del mercato: nel 2007 il segmento dei SUV valeva il 18% dell’immatricolato totale, pari a 2,8 milioni di veicoli, ovvero il primo segmento dell’intero mercato statunitense; dai tre milioni di SUV venduti nel 2003, si è passati alla previsione di un milione e mezzo scarso di esemplari nel 2008. Allo stesso tempo è aumentata la domanda di veicoli sub compact, cioè di piccole dimensioni e dai consumi più bassi. Le cosiddette “small car” cessavano di essere derise e i concessionari cercavano di averne sempre disponibili nei saloni, per far fronte a richieste crescenti. Parallelamente, i classici motori a sei e a otto cilindri erano sempre meno presenti sotto i cofani delle nuove auto vendute. Al loro posto hanno iniziato a diffondersi i propulsori a quattro cilindri, tradizionalmente snobbati dal cliente medio americano: nel primo trimestre del 2008 le vendite di SUV sono scese del 28%, mentre quelle di vetture sub-compact sono salite del 32%. Riguardo invece ai motori, sempre nel primo trimestre del 2008, ben il 38% delle nuove auto immatricolate sono spinte da quelli a quattro cilindri. La casa di Dearborn dovrà affrontare anche un altro problema: dopo diciassette anni di leadership incontrastata nella classifica dei modelli più venduti sul mercato statunitense, il Ford F-Series pick-up ha perso il primo posto. Le consegne rispetto a maggio del 2007 sono calate del 30,6%. Ma l’altro dato significativo, almeno quanto la perdita della leadership da parte del pick-up Ford, è la nuova classifica delle auto più vendute, in cui ai primi quattro posti si sono piazzati modelli del segmento sub-compact: Honda Civic, Toyota Corolla, Toyota Camry e Honda Accord. Considerando che le Big Three venivano da anni di licenziamenti e ristrutturazioni, e speravano in un 2008 capace di dare avvio a una ripresa delle vendite, non sorprendono le dichiarazioni del Presidente di GM Rick Wagoner all’allora candidato alla Casa Bianca Barack Obama, secondo cui: « (GM) ha bisogno dell’aiuto del Governo per continuare a competere a livello globale, per investire di più nella ricerca e per diventare più amica dell’ambiente». In effetti la crisi ha colpito maggiormente i modelli dai consumi di carburante più alti, cioè truck e SUV; mentre il consumatore americano scopre per la prima volta le small car. Secondo George Pipas, analista Ford, questo è stato lo spostamento di mercato più drastico degli ultimi trent’anni. Il problema vero era che nessuna delle Big Three ha nella propria scuderia una vettura in grado d’incontrare i nuovi gusti dei clienti, mentre Toyota, con la sua Yaris, aumentava le vendite del 46% rispetto all’anno precedente. Secondo gli analisti, l’unica chance per uscire da questa situazione avrebbe potuto essere quella di mettere in commercio una vettura piccola e dai consumi ridotti. Anche GM se ne è resa conto, tant’è che un suo portavoce ha confermato le indiscrezioni riguardo al lancio sul mercato nordamericano della piccola Chevrolet Beat, una vettura progettata e sviluppata per i mercati asiatici e sudamericani, da vendere a un prezzo non superiore ai 10.000 dollari. Mentre le Big Three hanno iniziato a pensare a come attrezzarsi per il futuro prossimo, il 2008 continuava a dare segnali preoccupanti: a metà dell’anno le immatricolazioni sono scese ancora. A luglio il costo della benzina superava i quattro dollari al gallone e si avviava verso i cinque; ciò ha costretto gli americani a cambiare le proprie abitudini: meno viaggi, meno consumi e richiesta di automobili più piccole. Proprio le Big Three hanno risentito di più di questo mutamento di scenario: nell’ultimo decennio SUV, pick-up e minivan avevano portato alle case automobilistiche americane le maggiori entrate. Nel 2008 queste vetture sono diventate, invece, il loro grande problema, tant’è che GM ha annunciato di voler chiudere ben quattro fabbriche di light truck, licenziando circa diecimila lavoratori. Inoltre ha deciso di liberarsi del marchio Hummer. I dati del venduto totale nei primi sei mesi dell’anno 2008 hanno evidenziano un ribasso rispetto al 2007 del 10,3%, equivalenti a 7.454.926 unità totali. Tuttavia non si era ancora verificato quello che gli operatori di settore temevano da tempo, ovvero il sorpasso di Toyota su GM nelle classifiche di vendita relative al mercato nordamericano. 

domenica 18 dicembre 2011

La storia della crisi, parte 1: come tutto ebbe inizio

La scintilla che ha acceso la miccia della crisi è stata lo scoppio della forte bolla speculativa del mercato immobiliare americano nel 2004, avvenuto a seguito di un lungo periodo in cui i prezzi delle case sono cresciuti costantemente e i mutui sono stati erogati con sempre maggiore facilità . Questa pratica è stata definita dei “mutui subprime”, ovvero concessi a debitori che hanno una storia creditizia che include insolvenze, avvisi di garanzia, pignoramenti e bancarotta; generalmente i mutuatari subprime hanno bassi redditi e ovviamente bassa capacità di rimborso. Avendo un alto tasso di insolvenza, i “prestiti subprime” hanno tipicamente condizioni più svantaggiose rispetto alle altre tipologie di credito, e gli interessi sono elevatissimi . La popolarità dei prestatori subprime è cresciuta rapidamente a partire dagli anni ’90 con una tipologia di mutuo che offre inizialmente un basso tasso fisso per due anni, che diviene variabile a un tasso più elevato per la vita successiva del mutuo, in genere ventotto anni. 
Questo fenomeno è passato praticamente inosservato agli occhi del Governo americano. Quando nel biennio 2004/06 è giunto il momento di ricalcolare i tassi d’interesse sui mutui subprime, questi sono saliti vertiginosamente e la maggior parte dei debitori non è stata in grado di pagare le rate o di rifinanziare il mutuo. A partire dalla fine del 2006 l’intero sistema statunitense dei mutui subprime è entrato in una crisi catastrofica, dovuta all’ascesa inarrestabile dei tassi di insolvenza, costringendo oltre due dozzine di agenzie di credito al fallimento; questo ha comportato l’azzeramento del valore azionario di un mercato che capitalizza seimilacinquecento miliardi di dollari, con conseguenze nefaste sia sul mercato immobiliare americano, praticamente crollato, ché sull’intera economia USA. Nel 2007 1,3 milioni di proprietà immobiliari sono state messe all’asta per insolvenza, il 79% in più rispetto al 2006. 
D’un tratto le banche non sono state più disposte a farsi prestiti a vicenda e ciò ha portato a quello che si definisce “credit crunch” ossia un periodo in cui si riduce la liquidità nel sistema perché nessuno presta denaro . Le perdite hanno cominciato ad accumularsi, tant’è che a luglio 2008 il settore bancario e creditizio ha denunciato perdite globali per oltre quattrocento miliardi di dollari. Dopo diversi mesi di debolezza e perdita di impieghi il fenomeno è collassato, causando il fallimento di banche e istituti di credito, determinando una forte riduzione dei valori borsistici e della capacità di consumo e risparmio della popolazione. Alcuni governi sono dovuti intervenire anche drasticamente per salvare alcuni istituti, mentre per altri la situazione è parsa ormai inevitabilmente compromessa. 
La preoccupazione di assistere a ulteriori bancarotte e la necessità di evitare ripercussioni negative sull’intero sistema economico, ha spinto addirittura il Governo americano a creare un piano di salvataggio del valore di settecento miliardi di dollari per il settore bancario e creditizio. Questo non è stato sufficiente a evitare il fallimento, senza precedenti nel Dopoguerra, di Lehman Brothers, una delle più importanti banche d’affari del mondo. Nel frattempo gli indici delle borse americane, specchio della salute dell’economia USA, sono letteralmente colati a picco con perdite che dall’inizio dell’anno hanno superato il 40% del valore. Gli effetti di questa crisi finanziaria sarebbero rimasti confinati al mercato statunitense se le banche e i creditori di questi prestiti subprime non avessero cartolarizzato questi debiti immettendoli sul mercato, facendoli circolare tra gli investitori sotto forma di azioni e tra gli istituti bancari come pacchetti finanziari incomprensibili ai più, creando una bolla finanziaria di dimensioni impensabili. 
Alla crisi finanziaria si è aggiunta la corsa del prezzo del petrolio, inarrestabile a causa del forte aumento della domanda da parte di economie emergenti come quelle di Cina e India. Questo ha influito sia sui prezzi dei carburanti, sia sui costi energetici; il maggior costo dei trasporti ha, a sua volta, fatto salire i prezzi di tutti i beni di consumo. Nel 2008, inoltre, si è verificato un sensibile aumento del costo di molte materie prime e di alcuni cereali fondamentali nella preparazione degli alimenti; ad esempio preparati chimici essenziali nella catena di produzione, come la soda caustica e l’acido solforico, hanno aumentato le loro quotazioni fino al 60%. Il tutto accompagnato da un’ondata generalizzata di ribassi con considerevoli perdite nelle borse di tutti i continenti. 
La crisi del settore bancario si è diffusa velocemente dagli Stati Uniti anche in Europa, determinando l’effetto di una forte riduzione del denaro circolante e di una restrizione nell’erogazione del credito ad imprese e consumatori. Le borse del vecchio continente hanno accumulato molteplici perdite. Nell’area Euro si è verificato il più massiccio intervento nella storia della Banca Centrale Europea. Quella nata come crisi finanziaria ha iniziato così a far sentire i suoi effetti anche sull’economia reale: alla contrazione dei consumi ha fatto seguito un rallentamento della produzione da parte delle imprese con conseguente aumento della disoccupazione, con il risultato che molte nazioni europee hanno visto scendere l’incremento del loro P.I.L. verso lo zero.