Nel
2008 dunque il mercato nordamericano ha perso quasi un quinto del suo
volume in un solo anno. E i dati di vendita del primo mese del 2009
(-37,3% rispetto a gennaio 2008, pari a 653.215 vetture) continuano a
non apparire confortanti: il livello delle vendite è tornato alla
quota del 1981. La crisi sembra inarrestabile e, secondo gli
analisti, non si sarebbero superati, a fine anno, i nove milioni e
mezzo di veicoli venduti, consentendo così alla Cina (stimata a nove
milioni e ottocentomila unità) di operare lo storico sorpasso sul
mercato. L’andamento
delle Big Three è stato disastroso: GM e Chrysler hanno perso oltre
il 50%, Ford più del 40%.
Inoltre, la loro incidenza sulla produzione totale annuale del
mercato domestico è scesa per la prima volta sotto il 60%,
confermando un inarrestabile calo, iniziato nel 1989, quando la
percentuale scese per la prima volta sotto il 90%. Il
2008, inoltre, ha anche visto GM perdere la leadership mondiale delle
vendite a favore di Toyota (con circa seicentomila veicoli in più
immatricolati a favore del colosso giapponese).
Mentre Ford ha chiuso il 2008 con il peggior bilancio della sua
storia, registrando perdite per quasi quindici miliardi di dollari. Per
Chrysler la situazione è ancora peggiore: benché nominalmente
appartenga ancora alle Big Three, la sua grandezza è un lontano
ricordo; i livelli di vendita degli ultimi anni, culminati nel 2008 a
meno di un milione e mezzo di unità, ne fanno ormai un costruttore
di secondo piano. Secondo
Global Insight, nonostante il prestito di quattro miliardi di dollari
da poco ottenuto dal Governo, nelle condizioni in cui versa avrà
difficoltà a sopravvivere oltre il primo trimestre dell’anno.
Il problema principale di Chrysler è derivato dal fallimento del
matrimonio con il gruppo Daimler; la casa americana è sprovvista di
piattaforme su cui sviluppare nuovi modelli, soprattutto di
dimensioni compatte, come il mercato richiede. Questo
è stato il motivo principale dell’avvio delle trattative con Fiat.
Nel mese di gennaio si è iniziato a discutere l’accordo tra i due
gruppi, del quale già si vociferava da qualche settimana. Fiat
acquisirebbe il 35% della casa americana, pagandolo con la
condivisione delle proprie piattaforme e dei propri motori di piccola
e media cilindrata su cui sviluppare nuovi prodotti, ottenendo in cambio una via
preferenziale d’accesso al mercato nordamericano e il know-how
tecnologico di Chrysler relativo ai veicoli elettrici. Nel
frattempo, le due case di Detroit hanno continuato a chiedere
prestiti al Governo americano: GM per circa quindici miliardi di
dollari e Chrysler per altri cinque. Queste richieste sono
accompagnate da drastici piani di ristrutturazione: GM ha previsto
di tagliare quarantasettemila posti di lavoro e brand importanti come
Hummer, Saab e Saturn; di concentrarsi sui core brand, riducendo la
gamma dei modelli del 25%; di ridurre drasticamente la rete
commerciale e chiudere i battenti di quattordici fabbriche. Inoltre,
ha già preso provvedimenti per il breve termine come il
licenziamento di tremilaquattrocento impiegati e la riduzione
generalizzata degli stipendi del 10%. Ad
Auburn Hills viene presentata l’alleanza con Fiat come il punto di
partenza per un grande rilancio e programmato il taglio di altri
tremila posti di lavoro, la chiusura di una linea produttiva e
l’estinzione di tre modelli. Intanto
a febbraio le immatricolazioni hanno seguitato a calare di oltre il
40% rispetto all’anno precedente. Dei
tre grandi costruttori nazionali Ford è quello che sembra reagire
meglio alla crisi. I suoi alti dirigenti non hanno avuto paura di
prendere decisioni drastiche, come tagliarsi lo stipendio del 30%,
e allo stesso tempo puntare sull’auto elettrica e ibrida,
dimostrando di essere reattivi verso le richieste del mercato e
potendo permettersi di non usufruire degli aiuti statali. Invece
l’idea dell’alleanza con la Fiat non è piaciuta a molti
parlamentari americani, nella misura in cui porterebbe, seppur
indirettamente, i soldi dei contribuenti americani nelle casse di un
costruttore straniero.
La stessa alleanza darebbe però la possibilità a Chrysler di
salvarsi dal fallimento e conservare circa cinquemila posti di lavoro
nordamericani. Nel
mese di marzo la perdita del mercato è stata pari al 36,8% e GM ha annunciato la possibilità sempre più concreta di avviare la
procedura di bancarotta.
Negli ultimi giorni dello stesso mese sono arrivate le prime
decisioni del Governo in merito alle richieste di intervento statale. Riguardo
a Chrysler, il Presidente Obama stesso ha dichiarato di ritenere la
situazione molto grave e, pur elogiando il management Fiat per
l’operato degli ultimi cinque anni, ha subordinato la concessione
dei sei miliardi di aiuti alla presentazione, entro trenta giorni, di
un nuovo piano che soddisfi alcuni punti fondamentali richiesti dalla
Casa Bianca (ad esempio il mantenimento degli stabilimenti in USA);
inoltre ha imposto che la Fiat non possa acquisire la maggioranza di
Chrysler, finché questa non abbia restituito il prestito.
Nello stesso giorno a Auburn Hills si annuncia di aver raggiunto una
bozza di accordo con Torino, approvata dal Dipartimento del Tesoro
degli Stati Uniti. Il
piano di GM, invece, non viene approvato e ciò costa la poltrona al
Ceo Rick Wagoner,sostituito da Fritz Henderson (a capo delle
operazioni finanziarie) e da Kent Kresa (presidente per gli incarichi
esecutivi). Alla nuova dirigenza viene dato un ultimatum di sessanta
giorni per preparare un nuovo piano, degno dell’erogazione di oltre
sedici miliardi di aiuti statali. Il
mese di aprile ha registrato il diciottesimo calo delle vendite
consecutivo, 815.393 unità in meno rispetto al 2008, ovvero un
decremento del 34,3%. Lo
stesso mese di aprile sarà cruciale per la definizione dell’accordo
tra Fiat e Chrysler. Le negoziazioni sono apparse tutt’altro che
facili, visto che tra le parti in causa ci sono anche diverse banche
creditrici (JP Morgan, Citigroup, Goldman Sachs e Morgan Stanley), il
sindacato americano (Uaw) e quello canadese (Caw).
Proprio quest’ultimo non avrebbe voluto accettare la riduzione del
20% della paga oraria dei lavoratori, una condizione ritenuta
imprescindibile da Marchionne per siglare l’accordo.
Ma il 27 di aprile, grazie anche alla mediazione effettuata
dall’amministrazione di Barack Obama, viene raggiunto l’accordo
con entrambe le organizzazioni sindacali.
La Uaw, in cambio dell’accettazione delle condizioni chieste dal
Lingotto, ha ottenuto una quota di partecipazione nella Chrysler
vicina al 50%.
Le banche creditrici, dal canto loro, hanno accettato di svalutare i
propri crediti, passando da sette a due miliardi di dollari, in
cambio di una quota azionaria nell’ordine del 10%.
La fusione viene ufficializzata il 30 di aprile, anche se la società
dovrà transitare per la Corte per la bancarotta di Manhattan per un
periodo di amministrazione controllata compreso tra i trenta e i
sessanta giorni, visto che non tutti i creditori hanno accettato le
condizioni proposte.
Grazie a questo accordo si sono riuscite a salvare decine di migliaia
di posti di lavoro, mentre il governo ha deciso di erogare subito
tre miliardi e mezzo di dollari, degli otto totali di aiuti, promessi
in caso di accordo con Fiat.
La NewCo (nuova società) che nascerà dalla procedura fallimentare,
vedrà Fiat padrona del 20% del capitale, i fondi pensione dei
lavoratori del 55% e i governi americano e canadese del 10%. Inoltre
il Lingotto riceverà un ulteriore 15% in tre tranche diverse, al
raggiungimento di determinati obiettivi, con la possibilità di
salire fino al 51%, attraverso una opzione esercitabile dal 1 gennaio
2013 fino al 30 giugno 2016. Questa importante joint-venture ha dato
l’opportunità a Chrysler di recuperare il tempo perduto nello
sviluppo di nuovi modelli, utilizzando le piattaforme e le tecnologie
Fiat, potendo così tornare competitiva sul mercato; mentre ha aperto
le porte del mercato nordamericano a Fiat, che potrà usufruire della
rete commerciale Chrysler e sfruttare la capacità produttiva degli
stabilimenti americani, che sono fortemente sottoutilizzati.
Anche molti dei concessionari del marchio stanno lavorando di gran
lunga sotto il loro potenziale, perciò solo tre su quattro potranno
conservare il mandato. Nel
mese di aprile la nuova dirigenza di GM ha presentato il suo primo
piano di ristrutturazione atto a ottenere il benestare del Governo
americano e ad evitare l’amministrazione controllata. Lo storico
marchio Pontiac sarebbe stato cancellato, ci sarebbero stati drastici
tagli della forza lavoro e del numero dei concessionari, oltre alla
chiusura di altri stabilimenti rispetto a quelli inizialmente
preventivati.
Secondo questo piano di riassetto, i vecchi azionisti avrebbero
mantenuto solo l’uno per cento della quota societaria, mentre al
Dipartimento del Tesoro sarebbe andato il 50% della nuova società,
al sindacato Uaw il 39% e ai creditori il 10%.
Ma la paura del fallimento è tale che sei top manager di GM vendono
contemporaneamente tutte le azioni in loro possesso, facendo crollare
le quotazioni del titolo a poco più di un dollaro per azione, cioè
il minimo da 76 anni.
Intanto i tagli da parte di GM sono proseguiti e ne hanno fatto le
spese duemilaseicento concessionari in USA (il 40% del totale) e trecento autosaloni in Canada (il 42% del totale).
Le trattative con i sindacati, invece, si sono concluse positivamente
e GM potrà incassare altri quattro miliardi di dollari dal Tesoro,
arrivando a un totale di quasi venti miliardi dall’inizio del
2009. Purtroppo
la brutta notizia arriverà dagli obbligazionisti, che non hanno
accettato di riconvertire il credito nei confronti di GM; questa
decisione rende vani gli accordi coi sindacati e avvicina sempre di
più la soluzione della bancarotta pilotata.
Così il 1 giugno 2009 viene ufficialmente aperta la procedura di
fallimento controllato: il Governo è diventato il più grosso
azionista della società con il 60% ed è costretto a ridimensionare
drasticamente l’azienda in ogni sua parte. Il
mercato persiste coi segni negativi, anche se in misura minore; a
maggio la perdita è contenuta al 33,7% rispetto all’anno
precedente.
Nello stesso mese, è arrivato anche un segnale importante dalla Casa
Bianca, che ha deciso di anticipare di quattro anni (cioè entro il
2016) l’entrata in vigore dei nuovi limiti di consumo. Ford,
nel frattempo, ha mantenuto la strategia “One Ford” e ha messo
in vendita anche il brand Volvo.
Stessa scelta per GM, che finalmente ha trovato un compratore per
Hummer: poco importa se la nuova proprietà di uno dei marchi simbolo
dell’America sarebbe stata cinese, visto che avrebbe permesso di
conservare tremila posti di lavoro.
Pure il brand Saturn è passato di mano, alla Penske Automotive, che
salvando il marchio dall’estinzione, ha salvato circa tredicimila
posti di lavoro.
Infine, anche il brand Saab sta per essere ceduto; il compratore è
la Koenigsegg, una piccola impresa operante in Svezia specializzata
nella costruzione di supercar in piccola serie; in questo modo
l’azienda di Throlläthan sarebbe ritornata svedese a tutti gli
effetti. Il
mese di giugno è risultato decisivo per la costituzione della nuova
alleanza Fiat-Chrysler. L’ultimo ostacolo da superare è stato un
ricorso presentato alla Corte d’Appello di New York da alcuni fondi
pensione che si sono sentiti danneggiati, poiché secondo loro
l’accordo deciso dal tribunale di New York avrebbe premiato i
creditori ordinari (cioè i lavoratori dell’azienda) a scapito dei
creditori privilegiati, ovvero i fondi pensione stessi.
Il parere favorevole della Corte è arrivato il 10 giugno: il ricorso
viene respinto e nello stesso giorno viene comunicata la chiusura dell’alleanza
strategica. Presidente della nuova società sarà Robert Kidder,
mentre Marchionne assumerà il ruolo di Amministratore Delegato; il
Consiglio di Amministrazione sarebbe stato invece composto da tre
membri nominati da Fiat (compreso lo stesso Marchionne), quattro
nominati dal Dipartimento del Tesoro, uno dal Governo canadese e uno
dal sindacato Uaw. Mentre
Chrysler e GM stanno attraversando momenti cruciali per il loro
futuro, Ford ha confermato di essere l’azienda più in salute,
aumentando del 16% le stime di produzione per la seconda parte
dell’anno, a seguito dei buoni risultati ottenuti.
Infatti nel mese di giugno, a fronte di un calo del mercato del 27,7%
(rispetto allo stesso mese del 2008), ha limitato le perdite al
14,8%. Complessivamente i dati del primo semestre 2009 hanno
evidenziato una perdita del 34,7% rispetto ai primi sei mesi del
2008.
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